Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Rapporto sulla ditattura comunista in Romania (1)

Set 2, 2009




Raporto sulla ditattura comunista in Romania (1)

Offriamo ai lettori la prima parte di una sintesi del Rapporto sulla ditattura comunista finalizzato nel 2008 e letto di fronte alle camere del Parlamento Romeno Il presente materiale proposto ai nostri visitatori è un riasunto, tradotto e curato di Davide Zaffi. Per la prima volta il regime comunista è definito ‘llegitimo e criminale’.

Il Rapporto sulla ditattura comunista che conta 600 pagine è stato il frutto di una ricerca che ha riunito 20 studiosi (storici, sociologi, politologi ecc.) Gli editori: Valdimir Tismaneanu, Dorin Dobrincu e Cristian Vasile. La decisione di costituire una commissione per fare questa ricerca sul passato e stata presa a Bucarest dal presidente Traian Băsescu. La ricerca e stata affidata a Vladimir Tismaneanu, politologo statunitense di origine romena. L’indice del materiale si trova a piè di pagina.

Filo condutore del Rapporto e di fare chiarezza sul proprio passato storico. Riconoscere errori e crimini commessi significa una “pulizia morale”, essenziale per garantire rapporti sociali e politici sani. Molti di questi sono vittime del regime socialista o parenti dei dissidenti che hanno subito la dura repressione.

Fare una stima con essatezza del numero delle persone decedute durante il regime ditattoriale risulta molto dificile. Si considera secondo alcune stime che sarebbero più di un milione le persone arrestate, interrogate, torturate e “rieducate” nei lager nel periodo della presidenza Gheorghe Gheorghiu-Dej. In quel tempo di diretta influenza di Mosca, decine di migliaia di “nemici del popolo” sarebbero stati assassinati e spariti dal domicilio.

La dittatura comunista terminò il giorno di 25 dicembre 1989, col processo al presidente Nicolae Ceausescu e alla moglie Elena, condannati per genocidio. La Romania è stato l’unico Paese dell’Est europeo dove la transizione dal comunismo alla democrazia è avvenuta nel sangue: 1.100 i morti, oltre 3.000 i feriti negli scontri tra esercito e cittadini. Altre fonti parlano di un totale di due milioni di vittime dei gulag in Romania.

SINTESI (a cura di Davide Zaffi)

L’Introduzione si divide in due parti. La prima anticipa taluni giudizi che si ricavano dallo studio, la seconda passa in rassegna la bibliografia sul comunismo in Romania. Il lavoro parte dalla constatazione che “fra lo stupore dei sostenitori della democraziae dell’Occidente gli orrori dell’epoca comunista sono rimasti impuniti…” e sostiene che ” il recupero della memoria e l’identificazione delle responsabilità sono indispensabili per il funzionamento di una comunità politica democratica…”. Si deve invece costatare che “…nel momento in cui viene scritto il presente rapporto torturatori come Gheorghe Enoiu (inquirente sadico, colonnello della Securitate) o Nicolae Pleşită (ex-capo della Securitate) continuano a denigrare, in piena libertà, le loro vittime…Una democrazia non può prosperare sulle amnesie. I nomi delle vittime e dei carnefici devono essere conosciuti…La Romania comunista non è stata governata da extraterrestri”. Il rapporto offre quindi un lungo, per quanto non esaustivo, elenco dei responsabili del terrore comunista: da Gheorghiu-Dej e Ana Pauker nella prima fase, fino a Ilie Verdeţ e Ion Iliescu, alti esponenti del PCR che dopo il 1989 sono diventati rispettivamente primo ministro e capo dello stato. Ogni attivista ha eseguito, dice il rapporto, “quello che considerava il suo nobile compito: realizzare con dedizione illimitata la linea del partito, senza riguardi per i costi umani provocati”. Eppure, fino ad oggi, nessuno fra i dignitari comunisti ha mai pronunciato una parola di rammarico per quanto accaduto.

Secondo il Rapporto, la Romania non ha mai conosciuto un periodo di destalinizzazione. L’aggressività violenta del potere verso i contestatari reali o potenziali non si è mai attenuata. I brevi momenti di relativa attenuazione della repressione (61-64; 68-71) non hanno mai modificato gli elementi fondamentali del sistema. A ciò ha contribuito il fatto che l’élite comunista rumena è sempre rimasta solidale nella profonda diffidenza verso la società civile e nell’utilizzo delle più devastanti pratiche staliniste. Non è mai apparsa nel PCR una corrente liberalizzatrice o almeno disposta a una pur minima autocritica, non si ritrova una figura come Imre Nagy, Alexander Dubcek o Milovan Djlas. Tale ruolo avrebbe forse potuto essere assunto, si congettura, da Lucreţiu Pătrăşcanu il più originale e intelligente fra i dirigenti comunisti dell’immediato dopoguerra. Si sostiene che egli avrebbe potuto evolvere verso un “comunismo rumeno un po’ meno inumano”, ma venne incarcerato nell’aprile 1948 dai suoi stessi compagni e fucilato poi nel 1954. All’ eccezionalità dell’esperienza comunista rumena rispetto agli altri paesi del blocco sovietico contribuiscono poi, in una seconda fase, la dimensione assunta dal culto della personalità e il delinearsi di uno scenario di successione dinastica. In effetti il culto della personalità del Conducător, spinto fino alla paranoia, appariva anacronistico e incomprensibile non solo agli occhi del mondo democratico ma anche a quelli delle élites comuniste nei paesi fratelli.

Il Rapporto demolisce poi uno dei miti più tenaci sul PCR: che questo cioè sia stato abile nel prendere le distanze dall’Unione sovietica a partire dal 1958, e ancor più dal 1964, difendendo la sovranità della Romania. Ora, il Rapporto afferma che “durante quattro decenni e mezzo lo stato rumeno si è trovato confiscato da un gruppo politico alieno agli interessi e alle aspirazioni del popolo rumeno”. Il regime comunista ha avuto “un netto carattere antinazionale” nonostante l’appropriazione e la manipolazione da parte dell’élite comunista di molti simboli patriottici. Questa spregiudicata operazione non derivava dall’ identificazione dei dirigenti rumeni con la cultura e la storia del paese ma faceva semplicemente parte di una lucida strategia di sopravvivenza politica. Giocando senza scrupoli la carta delle dignità nazionale e della non interferenza negli affari interni si neutralizzavano le istanze di liberalizzazione, più temute che reali, che venivano dall’Unione Sovietica. E mentre Gheorghiu-Dej prima e Ceauşescu poi esaltavano a parole la dignità nazionale rumena di fatto creavano ai rumeni condizioni di vita talmente oppressive e demoralizzanti da poter essere avvicinate a “forme di schiavismo”.

La seconda parte dell’introduzione, quella bibliografica, oltre a fornire utili informazioni per ulteriori ricerche, permette di stabilire che anche durante la guerra fredda non pochi studi di storici e analisti politici, soprattutto in lingua inglese, davano un quadro del comunismo rumeno assai vicino a quello reale. Se non riuscirono fino alla metà degli anni 80 a scalfire la prevenzione positivadell’Occidente verso Ceauşescu che, originava dal preteso antisovietismo di quest’ultimo, la causa non va ricercata nella loro carenza informativa.

Dopo il 1989, com’è naturale, ha potuto svilupparsi anche una storiografia rumena sull’epoca comunista, compresa la pubblicazione di fonti da archivi di stato e di partito.

Il Partito comunista romeno – incursione storica

Secondo il Rapporto la fine violenta del regime comunista in Romania era prevedibile perché non esistevano le condizioni per un cambio pacifico alla guida del partito. Certo, anche nel partito, oltre che nel paese, c’era scontento. Ma tale stato d’animo non produsse altro che inquietudine e panico, non portò al coagularsi di forze che potessero proporsi come alternative a Ceauşescu.

Ciò fu dovuto, secondo il Rapporto, a tre motivi contingenti: l’attento controllo esercitato sul partito dal segretario generale, la mancanza di personalità credibili fra i dirigenti e il debole impatto della perestroika in Romania. Ad essi se ne aggiungevano di strutturali: il gruppo dirigente comunista rumeno era un “tipo di famiglia politica, con le sue memorie, regolamenti di conti, frustrazioni, e anche sogni romantici, speranze e aspettative”. Ceauşescu pur con le sue esagerazioni, non rappresentava un’aberrazione così clamorosa dalla via del comunismo rumeno come si potrebbe credere a un primo esame.

Durante tutta la sua esistenza il PCR (dal 1948 al 1965: Partito operaio rumeno, PMR) è stato tormentato da un complesso di inferiorità. Dalla sua fondazione nel 1921 fino al 1944 fu una formazione del tutto marginale, insignificante. Fu completamente dominata dall’apparato del Comintern, a differenza dei partiti comunisti cecoslovacco, ungherese e jugoslavo che, seppur minima, avevano qualche base nei paesi rispettivi. Per oltre vent’anni il PCR ha sostenuto tesi “in flagrante contrasto col semplice buon senso, del tutto al di fuori delle principali correnti politiche rumene”. Il PCR del resto “era costituito principalmente da elementi allogeni (bulgari, ungheresi, ebrei, ucraini) che avevano una comprensione limitata delle aspirazioni nazionali del paese”. In effetti il PCR invocava lo smembramento dello stato rumeno creato nel 1919, che definiva un paese “imperialista multinazionale”. I deliberati dei congressi e la propaganda del PCR sostenevano, ad esempio, che la Bessarabia andava liberata dal giogo rumeno e “restituita” all’Unione sovietica; del pari il Quadrilatero andava restituito alla Bulgaria.

L’influenza del PCR, tuttavia, era irrilevante perfino sulla classe che pretendeva di rappresentare: nel 1944, quando avvenne il colpo di stato che depose il generale Antonescu, il Partito contava 80 iscritti nella capitale e circa 1000 nell’intero paese. Ciò non ostante, prima dell’arrivo dell’Armata rossa a Bucarest a fine agosto, esistevano nel partito tre gruppi ben distinti e ferocemente contrapposti: il “gruppo delle carceri”, formato dai comunisti condannati per disordini in epoca borghese e guidato Dej (fra cui Georgescu, Stoica, Draghici, Constantinescu e il giovanissimo Ceauseşcu); il “gruppo in clandestinità” col segretario del partito Foris, Koffler e Pătrăşcanu, e infine quello dei “rifugiati” a Mosca, le cui personalità marcanti erano Ana Pauker (dal 1940), Vasile Luca e Leonte Răutu. Differenze ideologiche o di tattica politica non potevano esistere fra i tre gruppi, considerato che erano tutti strumenti passivi nelle mani di Stalin. Fin dall’epoca prebellica il PCR fu tuttavia caratterizzato da acerbe e spietate lotte frazioniste dovute sia a motivi di personale ambizione politica sia alla peculiare mentalità che domina nei movimenti cospirativi e spinge alla massima spietatezza soprattutto verso i propri compagni. Di ciò dà testimonianza la brutale uccisione del segretario Foris ancora nella primavera del 1944, decisa dal gruppo di Dej per aleatori motivi di sospetto e sfiducia.

In tale desolante situazione solo l’occupazione sovietica del paese poteva portare ad attribuire un qualche peso politico al Partito. Fu grazie alla copertura, anzi all’impunità offerta dai militari sovietici che il PCR poté inscenare disordini e provocazioni senza sosta, demonizzare e insultare gli avversari, cogliendo ogni pretesto, o creandolo, per dimostrazioni di forza e intimidire i partiti democratici pro-occidentali. Il tutto avvenne fra le flebili proteste dei rappresentanti di Gran Bretagna e USA a Bucarest e sotto la regia dell’URSS.

Il 6 marzo 1945 l’inviato sovietico a Bucarest, Višinskij, impose a un intimorito re Michele la nomina a primo ministro di Petru Groza, esponente del Partito agrario, vicino a quello comunista. Entrano nel governo quattro comunisti Patrascanu (Giustizia), Dej (Commercio), Georgescu (Interni) Constantinescu (Propaganda). Di certo non meno importante fu la nomina della spia sovietica Bodnăraş (questo il nome rumenizzato dell’ucraino Bodnarenko) a capo dei servizi segreti. Grazie al controllo sull’amministrazione e la polizia, il PCR organizzò in occasione delle elezioni parlamentari del 19 novembre 1946 “una frode immensa”. Nonostante lo zelo dei prefetti di nuova nomina e di bande rosse ‘rivoluzionarie’ che terrorizzavano gli elettori, i comunisti ottennero deboli risultati. Il governo, allora, semplicemente capovolse l’esito delle elezioni: al principale partito di opposizione, il nazional-agrario (PNT) guidato Iuliu Maniu vennero assegnati 32 seggi, a formazioni minori di centro e di destra complessivamente 33 e ai comunisti e ai loro alleati 349, pari al 70 % dei voti: erano più o meno quelli che aveva ottenuto il PNT, secondo fonti coeve, incluse quelle dei consolati occidentali, e ricerche d’archivio. Ciò nonostante nel febbraio del 1947 Stati Uniti e Gran Bretagna firmarono il Trattato di pace con la Romania facendosi scivolare di mano l’ultimo appiglio formale per esigere dai comunisti una qualche moderazione. A partire da questo momento la morsa comunista sul paese si fece sempre più stretta. Nel luglio 47 l’intero gruppo dirigente del PNŢ fu messo in stato d’arresto sotto l’ accusa di alto tradimento. Alcuni membri di quel partito intendevano fuggire all’ovest e furono bloccati nel piccolo aeroporto di Tamadau (quasi tutti gli arrestati, sottoposti a regimi disumani, morirono negli anni successivi in carcere).

Nel dicembre dello stesso anno il re fu costretto ad abdicare, nel febbraio 48 avvenne l’unificazione del PCR con i socialisti del PSDR da cui sorse il PMR, una formazione nella quale i comunisti detenevano la maggioranza: dei 41 membri del Comitato centrale del nuovo partito 31 erano comunisti e solo 10 socialisti. I dirigenti del PSDR contrari alla unificazione vennero incarcerati sotto diversi pretesti. E tuttavia, con i comunisti ormai padroni assoluti del paese, non cessarono le rivalità politiche, benché ora tutte interne al partito, tanto che “nessuno si sentiva al sicuro nel sistema terrorista che si era istaurato, neppure gli agenti più fidati di Mosca. Epuratori e epurati, carnefici e vittime vennero tutti presi in un meccanismo che riproduceva di continuo violenza”.

Indice del Rapporto

Natura, finalità e effetti del regime totalitario in Romania. 1945-1989

Il regime comunista in Romania: riferimenti bibliografici

Capitolo I Il Partito Comunista Rumeno

Il ruolo dei consiglieri sovietici; Le elezioni nella Romania comunista; La distruzione

della società civile- Le organizzazioni di massa. L’Unione della Gioventù comunista

Capitolo II La repressione

Il genocidio ad opera dei comunisti in Romania; La Securitate- strumento del partito; La legislazione con carattere repressivo nella Romania comunista; Cronologia e geografia della repressione; Stima della popolazione internata nei lager; Il sistema penitenziario nella Romania comunista; Casi di studio; Le deportazioni e i trasferimenti di popolazione nella

Romania degli anni 50. L’istituto del domicilio coatto; L’universo dei campi nella memorialistica rumena; La resistenza armata anticomunista; I movimenti studenteschi del 1956; Le proteste operaie nella Romania comunista; La dissidenza nel regime comunista. Considerazioni generali: dissidenza, resistenza, esilio, cooptazione; Dissidenza religiosa; I metodi di reclutamento della Securitate.

Capitolo III Società, economia, cultura

Istituzioni giuridiche; Economia dirigista; La collettivizzazione dell’agricoltura: presa didecisione politica, fasi, resistenza e repressione. La crisi economica degli anni 80. La penuria. Il regime comunista e i culti. La riforma della scuola e le sue implicazioni. Educazione e ideologia nel primo decennio comunista. Ideologia e terrore. Il monopolio della vita culturale. La politica demografica del regime ceausista. La situazione delle minoranze nazionali. La repressione comunista nella Moldova sovietica. Metodi di controllo sociale in epoca ceausista. La Rivoluzione del 1989.

Conclusioni-

Necessità di approfondimento, ripudio e condanna del regime comunista

Biografie della nomenklatura

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