Centro Culturale Italo Romeno
Milano

E morto il poeta romeno Adrian Paunescu (1943 – 5 novembre 2010)

Nov 5, 2010

introduzione e traduzione di Flavio Pettinari

Le note che seguono si basano sulle preziose ricostruzioni biografiche fatte da Andrei Păunescu e su diversi incontri avuti col poeta nell’agosto 2002. Esse inoltre vorrebbero essere, assieme alle traduzioni, l’anticipazione di un’antologia dedicata al poeta, la cui opera è tutt’ora inedita in italiano.

Adrian Păunescu è nato a Copăceni, in Bessarabia, nel 1943. Nonostante la “colpa” di essere figlio di un detenuto politico, riesce a compiere lo stesso gli studi e si laurea in Lettere, a Bucarest, nel 1968. Nello stesso anno la Securitate apre il dossier “Titanul” [Il Titano], dove, fino alla caduta del regime, verranno registrati i movimenti del poeta, le intercettazioni, le poesie censurate. Il poeta Adrian Păunescu debutta nel 1960, con una poesia pubblicata sulla rivista “Luceafărul”, della quale diventerà redattore capo all’inizio degli anni ’70. Intanto, Păunescu ha già pubblicato diversi volumi di poesia, uno di prosa, è stato premiato dall’Unione degli Scrittori ed è stato titolare di una borsa di studio negli USA, dove riesce a contattare ed intervistare Mircea Eliade, allora ancora bandito dal regime romeno. Anche se membro del PCR, nel 1972 Păunescu è costretto a dimettersi dalla redazione di “Luceafărul”, e dopo un anno vissuto da disoccupato, viene nominato redattore capo di “Flacăra”, che in breve diventa la rivista più popolare del paese, raggiungendo una tiratura di cinquecentomila copie. Nel 1973 hanno inizio le manifestazioni del Cenacolo “Flacăra”, il quale ha avuto il merito di lanciare decine di giovani artisti (ancora oggi tra i più apprezzati in Romania): in dodici anni di attività, il Cenacolo “Flacăra” si è esibito, tra concerti, incontri di poesia, dibattiti, 1615 volte, diventando, oltre che un fenomeno di massa, anche un pericolo per il partito al potere, tanto che nel 1985 il cenacolo viene sciolto e Păunescu “destituito”. Dopo un periodo di incertezze (in cui resta più volte senza lavoro e senza il diritto di pubblicare le sue opere), durato fino a dopo la Rivoluzione, nel 1990 il poeta fonda la propria casa editrice (Editura Adrian Păunescu), pubblica riviste (“Vremea”, “Totuşi Iubirea”, “Flacăra lui Adrian Păunescu”) e conduce il Cenacolo “Totuşi Iubirea”, che nei primi sei anni di attività ha prodotto all’incirca 450 manifestazioni.
Accanto all’attività artistica, Adrian Păunescu si è sempre impegnato politicamente: sia indirettamente (facendo riabilitare dal regime gli autori, le personalità religiose, ma anche molti semplici cittadini incriminati per motivi politici), sia direttamente, come membro scomodo del PCR prima (e ce lo dimostrano gli archivi dei servizi segreti e il rapporto conflittuale con l’autorità comunista) e come senatore dal 1992, ricoprendo numerose cariche pubbliche (attualmente è presidente della Commissione Cultura, Culti, Arte e Mass media del senato romeno).
Da diverse inchieste, risulta che Păunescu sia attualmente considerato in patria, dopo il poeta nazionale Mihai Eminescu, l’autore più conosciuto e apprezzato.

OPERE POETICHE: Ultrasentimente, 1965; Mieii primi, 1966; Fântâna somnambulă, 1968; Viaţă de excepţii, antologia, 1971; Istoria unei secunde, 1971 (la prima edizione fu bruciata dalla censura); Repetabila povară, 1974; Pământul deocamdată, 1976 (record nazionale di tiratura); Poezii de până azi, antologia, 1978 (record mondiale di tiratura per un’opera di poesia); Manifest pentru sănătatea pământutlui, 1980; Iubiţi-vă pe tunuri, 1981; Rezervaţia de zimbri, 1982; Totuşi iubirea, antologia, 1983; Manifest pentru mileniul trei – Vol. 1, antologia, 1984; Manifest pentru mileniul trei – Vol. 2, antologia, 1986 (con un capitolo di poesie inedite ed uno di note critiche); Locuri comune, 1986; Viaţa mea e un roman, 1987; Într-adevăr, 1988; Sunt un om liber, 1989 (messo all’indice dalla censura appena dopo l’apparizione e ridistribuito nel marzo 1990); Poezii cenzurate, 1990; Româniada, Trilogia căruntă, 1993-1994; Bieţi lampagii, Trilogia căruntă, 1993-1994; Noaptea marii beţii, Trilogia căruntă, 1993-1994; Front fără învingători, 1995; Infracţiunea de a fi, 1996; Tragedia naţională, 1997; Deromânizarea României, 1998; Cartea cărţilor de poezie, 1999 (raccoglie tutti libri di poesia, con un capitolo di poesie non pubblicate ma diffuse sotto forma di canzoni); Meserie mizerabilă sufletul, 2000; Nemuritor la zidul morţii, 2001; Până la capăt, 2002.

La critica letteraria romena che si è occupata di Adrian Păunescu ha cercato spesso il riferimento agli autori romeni “classici”: alcuni critici lo hanno paragonato, per il profondo valore sociale e lo stile profetico, a volte violento, a Tudor Arghezi (1880-1967); altri, per il lirismo anche militante di molti componimenti, hanno accostato Păunescu a Nicolae Labiş (1935-1956); altri ancora, ponendo l’accento sul patriottismo, hanno trovato in Păunescu un erede di Octavian Goga (1881-1938). Non sono mancati coloro ai quali, per motivi non solo generazionali, è parso opportuno anche il legame con Nichita Stănescu (1933-1983) e Marin Sorescu (1936-1996). La poesia di Adrian Păunescu, effettivamente, ha attraversato tutto questo, andando però oltre le riconosciute influenze “classiche” e scavalcando pure quelle, reciproche, dei coetanei. Tuttavia, parlare di un autore attraverso le comparazioni (pur giustificate) rimane comunque una forzatura, e può essere di poco effetto, soprattutto “comparando” all’interno di una letteratura poco frequentata come quella romena (e comunque, all’interno di questa galleria di paragoni, ci sarebbero anche Bacovia, Coşbuc, Blaga…).
Abbiamo scelto di presentare la poesia di Păunescu attraverso uno dei suoi poemi più celebri, Iubiţi-vă pe tunuri [Amatevi sui cannoni], poiché ci sembra rappresentare al meglio l’intera opera păuneschiana, oltre a quanto detto sopra: vi si possono notare infatti, in divenire, le caratteristiche fondamentali che contraddistinguono il poeta. Se dei critici (ad esempio Ion Pop, nel recente Dicţionarul Scriitorilor Români) sostengono che, in linee generali, la poesia di Păunescu non abbia avuto, in ormai quarant’anni, sostanziali “cambiamenti di rotta”, è pur vero che essa si è evoluta dal soggettivismo lirico degli esordi (un soggettivismo, e qui la comparazione può andare, spesso “majakovskiano”: non sono un caso i riferimenti, diretti o meno, all’autore de La blusa del bellimbusto) verso una presa di coscienza collettiva che attraversa tutti gli anni ’70 fino ad oggi, e che sfocia nei più recenti, lunghi poemi volutamente in prosa (il titolo emblematico di uno di questi poemi è Eu sunt un ziar, cioè Io sono un giornale), nei quali la denuncia (politica, civile, etica) diventa invettiva ed esortazione. Ma anche quando l’argomento dei versi è più intimistico, raramente il poeta si rifugia “al chiuso”: gli ambienti preferiti restano sempre gli spazi aperti, e quindi le piazze cittadine, le strade, i campi, mentre lo stile è quello della declamazione.
La poesia di Păunescu, indipendentemente dalla forma (in prosa, o incastonata in una metrica rigorosa) e dal contenuto, nasce per essere recitata, cantata o addirittura gridata; si tratta di una poesia teatrale, come si legge nei versi che seguono, che vuole essere amata o odiata, condivisa o rifiutata, e che, soprattutto, non può essere ignorata (“zgomotos”, rumoroso, è stato definito in più occasioni Păunescu). Ma questa teatralità, espressa esplicitamente, oltre ad essere stile, diventa anche contenuto e stimolo per riflettere, anche ironicamente, sul rapporto tra arte e vita, di nuovo riferendosi direttamente a Shakespeare (che più volte ha paragonato il mondo ad un immenso teatro), e tra le righe al poeta-drammaturgo Sorescu (da un poemetto di quest’ultimo, Shakespeare: “Shakespeare creò il mondo in sette giorni”).
Rimane forte il soggettivismo degli esordi, in quanto il poeta non ha ancora preso la “cattiva abitudine di mettere in terza persona / Ciò che divora la prima”, ma pur presentandosi come poeta vate, tale figura resta sui generis: non porta esempi, non si riferisce a sé stesso come modello. Il noi, quasi mai presente, non prevale in ogni caso, mentre nella poesia civile, diventata estrema, degli ultimi anni, nonostante il contenuto corale e sociale, la “responsabilità” della poesia rimane sull’io, come a dire che il poeta non vuole nascondersi dietro o nel mezzo della folla per conto della quale e verso la quale, infine, parla.
Come nel volume Istoria unei secunde, dunque, la poesia resta “un rischio per conto proprio”: un rischio che il poeta, in quanto tale, ha il dovere di prendere, non per sé stesso ma per la società in cui la poesia ha ragione di essere.

fonte: SOGLIE, anno 2002 n. 3

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